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L'ultimo bicchiere: 35 anni fa la strage del vino al metanolo

Aggiornamento: 16 apr 2021


Creatività, edonismo, esagerazione estetica. Negli anni Ottanta l’Italia sceglie la strada della leggerezza e si lascia travolgere dall’illusione di un benessere diffuso e artisticamente esuberante di cui oggi, forse, si sente un po’ la mancanza. Trionfano il socialismo craxiano e la moda paninara, si rivoluzionano i format televisivi e sullo scacchiere consumistico della “Milano da bere” viene a galla la più grave sofisticazione alimentare della storia repubblicana. In poche settimane tre morti sospette e decine di persone al pronto soccorso del Niguarda con dolori alla testa, nausea e forti crampi. Alla USL 75/15 si insospettiscono, avviano indagini interne e le trasmettono al nucleo antisofisticazioni dei Carabinieri. È il 18 marzo del 1986 e in tutta Italia scoppia ufficialmente lo scandalo del vino al metanolo.

Una storia tragica dai contorni sfumati che affonda le sue radici nell’estate del 1984 con la legge 408 del 28 luglio. In ottemperanza alle sentenze della Corte di Giustizia CEE del 1982 e del 1983 (che accusavano l’Italia di discriminare i prodotti alcolici d’importazione), lo Stato decide di detassare il metanolo, composto organico usato nell’industria come solvente, ma in piccole dosi intrinseco anche al processo stesso di vinificazione. L’alcol metilico passa così da 5.000 a 500 lire al litro e sebbene la legge ne vieti esplicitamente l’utilizzo nelle produzioni alimentari, la sua convenienza economica lo rende ora appetibile soprattutto nel mercato nero degli alcolici.


Il mondo del vino da tavola si arricchisce dunque di strani miscugli venduti al miglior offerente, la cui diffusione è agevolata da una rete di controlli fragile e inefficace e da una scarsa cultura enologica popolare nonostante gli alti consumi (sessantotto litri pro-capite all’anno). Un mercato dominato dall’omertà e dall’avidità di guadagno che s’interrompe bruscamente il 18 marzo del 1986, appunto, quando le analisi di laboratorio rilevano nei bottiglioni avvelenati quantità di metanolo dieci volte superiori a quelle consentite dalla legge (0,16 ml in media ogni 100 ml di alcol etilico complessivo).

Crescono i casi di sospetta intossicazione e di presunte morti, si moltiplicano i sequestri dalla Lombardia al Piemonte, dalla Liguria all’Emilia Romagna. Il mondo vitivinicolo implode, le vendite precipitano e la credibilità italiana tracolla con il blocco delle esportazioni in Spagna, Germania e Stati Uniti. La prima azienda a finire sotto i riflettori è la Vincenzo Odore di Incisa Scapaccino (AT), dalla quale sono partiti i bottiglioni di Barbera del Piemonte rinvenuti a casa delle vittime. Ma la Odore è semplice rivenditrice e non produttrice, per cui gli inquirenti provano disperatamente a risalire alla partita di vino incriminata.

Il cerchio si stringe attorno alla cittadina di Narzole (CN), tremila abitanti e centoventi aziende vinicole (dati del 1986, ndr). Tra le realtà più conosciute vi è la cantina di Giovanni Ciravegna, cavaliere del lavoro classe 1929, noto come il signor dudes e mes (dodici e mezzo) per la sua abilità nell’aggiustare la gradazione alcolica del vino. Da lui è partito il carico imbottigliato e rivenduto dalla ditta Odore di Incisa Scapaccino e nella sua proprietà gli inquirenti trovano 9.000 ettolitri di vino al metanolo.


Il Tribunale di Milano emette allora un ordine di carcerazione preventiva per Giovanni Ciravegna e per suo figlio Daniele, ma l’eco inquisitorio si espande dall’Emilia Romagna alla Puglia con l’arresto di altri sofisticatori. Il 27 aprile, intanto, migliaia di viticoltori sfilano per la città di Alba difendendo il vino buono, pulito e onesto, il governo Craxi stanzia 5 miliardi di lire per una massiccia campagna informativo-promozionale e le produzioni, a poco a poco, ripartono nel nome delle certificazioni e delle garanzie.


Sul campo, però, restano le ferite profondissime di 19 morti e 15 persone lesionate irreversibilmente, divenute cieche o ipovedenti. E se l’economia galoppa, la giustizia arranca. Il processo si apre soltanto nel 1991 (con tutti gli imputati divenuti ormai nullatenenti) e si chiude nel febbraio del 1994 con la conferma in Cassazione della condanna a 14 anni per omicidio colposo plurimo per Giovanni Ciravegna e altri tre complici non piemontesi e l’obbligo di risarcimento di un miliardo di lire per ciascuna delle vittime.


Trentacinque anni dopo, però, al Comitato Vittime Vino al Metanolo non è ancora arrivato nulla. Da sempre Roberto Ferlicca, Presidente del Comitato stesso, tenta invano di scalfire il silenzio istituzionale con lettere, richieste e libri (tra cui la nuova edizione de “Terrorismo Acido”, Il Convivio Editore, 2021). “In tanti anni ho avuto contatti con Onorevoli, Ministri e Sottosegretari di tutti gli schieramenti. Parole di circostanza, fredde e asettiche, ma nulla più. Anzi, la disgustosa sensazione di essere lì per elemosinare un favore e non per rivendicare un semplice diritto”.

Trentacinque anni dopo, in definitiva, per decine di famiglie la giustizia non ha ancora fatto il proprio corso. Giovanni Ciravegna è morto nel 2013 ancora convinto della propria innocenza (“Io ho comprato in buona fede da persone che conoscevo. Sofisticatore sì, assassino no”), l’industria enologica si è lasciata alle spalle scandali e sofisticazioni e il vino al metanolo è ormai un cattivo ricordo da dimenticare in fretta. Rimangono soltanto i parenti delle vittime, inermi e silenziosi, e un bicchiere di speranza rigorosamente vuoto.

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