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I Vajont dimenticati: il disastro del Gleno (1)

Aggiornamento: 16 apr 2021

Val di Scalve, là dove la provincia di Bergamo si intreccia con quella di Brescia. Una esile nervatura orografica che si apre tra la Val Seriana e la Val Camonica, stretta tra montagne aspre e selvagge che superano i 2.500 metri di quota. Una terra dura che non si fa addomesticare se non con lacrime, bestemmie e sudore. Quassù ai primi del Novecento la vita non regala niente a nessuno ed è per questo che l’unico ordinamento sociale accettato nella zona è quello del “comune di valle”. Una federazione di vicinìe che distribuisce, responsabilizza e non accentra. Nessuna preclusione politica, ideologica o religiosa, ma ogni decisione deve essere preventivamente condivisa con le antiche famiglie. Elementi socio-antropologici imprescindibili per chiunque voglia operare in un territorio similare, che all’inizio del secolo scorso comincia a far gola a tanti per le sue potenzialità idroelettriche. Gli industriali bergamaschi e bresciani, però, si lasciano inspiegabilmente sfuggire l’occasione e nel 1916 la concessione per la derivazione dell’acqua del torrente Povo presso Pian di Gleno finisce nelle mani di Galeazzo Viganò e della sua Fraterna Viganò di Ponte Albiate presso Triuggio (MB), azienda attiva soprattutto nei cotonifici e bisognosa, dunque, di energia per i propri impianti.

La Val di Scalve (wikipedia.it)

Su disegno dell’Ingegner Giuseppe Gmur viene quindi progettata una diga a gravità ai 1.500 metri di quota di Pian di Gleno, con capacità massima di sfruttamento fissata dal Ministero dei Lavori Pubblici in 3.900.000 metri cubi. Ma la Prima guerra mondiale stabilisce inevitabilmente le priorità da perseguire, per lo Stato e per la gente. Manca la manodopera, il luogo è impervio e per alcuni anni sono spesso le donne a trasportare a monte cemento e materiali utili per gli scavi accessori. Il 12 maggio 1919 viene finalmente presentato il progetto esecutivo, ma in attesa dell’approvazione da parte del Genio Civile, la Viganò inizia comunque i lavori. Una prassi operativa talmente consolidata che si ripeterà ancora quarant’anni dopo nel disastro del Vajont. Tra il 1918 e il 1920, intanto, muoiono Michelangelo Viganò e Giuseppe Gmur e al loro posto arrivano Virgilio Viganò (il fratello) e Gian Battista Santangelo. I due studiano, riflettono e azzardano. Al “semplice” tampone a gravità, infatti, aggiungono un’ulteriore diga ad archi multipli estesa anche sulle spalle rocciose laterali, per duecentosessanta metri di lunghezza complessiva. Così facendo la capacità totale d’invaso raggiungerebbe i 6.000.000 metri cubi d’acqua con maggior energia a disposizione per l’intera vallata.

La diga in costruzione (maxpiantoni.it)

Ma i rapporti tra i Viganò e i valligiani s’incrinano fin da subito. Gli industriali brianzoli sfruttano e semi-schiavizzano i lavoratori locali, ne fanno giungere altri da Milano pagati a cottimo e non rispettano alcun accordo sindacale. Il clima sociale si surriscalda in pochi anni e neanche le nascenti gerarchie fasciste riescono a controllare sabotaggi, scioperi e violenze. I lavori alla diga, comunque, proseguono spediti tra risparmi e soprusi. Il primo progetto esecutivo non è ancora approvato che Viganò e Santangelo cominciano a costruire la diga ad archi multipli. Il 12 agosto 1921 il Genio Civile ispeziona i lavori e scorge con immenso stupore la nuova variante ad archi multipli. Nessuno sconvolgimento emotivo, però, e nessuna sospensione operativa. Una semplice richiesta di integrazione che giunge nel febbraio del 1922 con la presentazione del progetto esecutivo del nuovo sbarramento. I lavori non si fermano e il malumore cresce: materiali scadenti (mai certificati in fase processuale), sfruttamento lavorativo, errore progettuale (probabile, ma mai stabilito in fase processuale), perdite evidenti nella struttura (presenti ma, come si evince dalle perizie, nella norma per strutture similari). Il Genio Civile ispeziona nuovamente la diga nel luglio del 1922 e nell’ottobre del 1923 (ormai ultimata, piena e in attesa del collaudo), non riscontrando alcuna problematica. Nella zona a preoccupare sono invece i sabotaggi e gli attentati, come quello compiuto dagli anarchici alla centrale elettrica dell’Adamello, alle cui maestranze sono ammessi soltanto i tesserati al partito fascista.

La diga ultimata (maxpiantoni.it)

Tra l’ottobre e il novembre del 1923 piove molto in alta Val di Scalve. La diga si riempie, le perdite aumentano ma non destano preoccupazione. Per quarantasei giorni, dopotutto, l’invaso rimane alla sua massima capienza senza dare alcun segnale di cedimento strutturale. Poi, alle 7.00 del 1° dicembre, il disastro improvviso. Ottanta metri di diga ad archi multipli cedono di schianto e una valanga d’acqua s’invola verso il fondovalle. Vengono travolti Bueggio (salvata almeno in parte da una sporgenza rocciosa che devia la traiettoria dell’onda), Dezzo (spazzate vie le abitazioni che si estendono sul versante di Colere), Mazzunno, Angolo Terme e la località Corna di Darfo Boario Terme. Gli ultimi ruggiti del Gleno affogano infine tra le acque del Lago d’Iseo trasportando con sé fango, detriti e cadaveri. 359 le vittime ufficiali, 500 quelle probabili visto che per intere famiglie non vi è più alcun componente che possa denunciarne la scomparsa. Se la Val di Scalve è sconvolta, il partito fascista è profondamente scosso. Per la sciagura, certo, ma soprattutto per il contraccolpo socio-politico-economico. Perché all’estero non devono sapere, perché c’è fame di energia, perché l’idroelettrico rappresenta il futuro.

La parte di diga crollata (maxpiantoni.it)

La pratica, insomma, deve essere chiusa in fretta senza dare troppo negli occhi. Il 4 dicembre 1923 il Consorzio Idroelettrico del Dezzo, che riunisce le imprese locali che si erano viste soffiare via la concessione idroelettrica dai Viganò, individua in questi ultimi gli unici responsabili del disastro, denunciandoli ufficialmente il 29 dicembre. Tra l’11 e il 14 dicembre agiscono giudizialmente contro i Viganò anche i comuni di Darfo e di Colere, mentre il 30 dicembre è la volta della Procura del Re che deposita la propria incriminazione contro gli industriali brianzoli. A meno di un mese dalla tragedia, dunque, non si conoscono ancora le cause del crollo ma già si individuano i responsabili. Il 6 gennaio 1924 tutti i beni della Fraterna Viganò vengono sequestrati e il 30 marzo 1925 si apre il dibattimento processuale. Il 5 giugno 1927 il primo grado del processo condanna Virgilio Viganò e Gian Battista Santangelo a tre anni e quattro mesi di reclusione e al pagamento di 7.500 lire di ammenda, assolvendo però gli altri imputati della famiglia Viganò e, inspiegabilmente, Luigi Vita, costruttore materiale della diga ad archi multipli. Il 27 novembre 1928 la sentenza di appello riequilibra le parti, assolvendo Santangelo per insufficienza di prove e Viganò per “intervenuto decesso” (di crepacuore secondo alcuni). Dopo anni di interrogatori, perizie e indagini, insomma, il sistema giudiziario italiano non riesce ad emettere una sentenza di condanna.

La diga in effetti aveva dei problemi, da attribuire forse più alle limitate conoscenze ingegneristiche del tempo che ad errori procedurali in fase di costruzione. Analisi geologiche successive hanno parimenti evidenziato la presenza di un dicco di roccia porfirica nel mezzo dello sbarramento, responsabile delle infiltrazioni e del cedimento. Ma alla luce del quadro sociale e storico del tempo, un’altra verità si è fatta largo negli anni. L’attentato alla centrale dell’Adamello poche settimane prima, il furto di 75 kg di dinamite dalla zona di cantiere, il malcontento popolare nei confronti delle modalità colonizzatrici dei Viganò e soprattutto due differenti perizie balistiche, hanno infatti portato a pensare che il fattore scatenante del crollo possa essere stata un’esplosione. Due, come detto, le valutazioni in proposito: quella di Ottorino Cugini (Comandante del Genio del Secondo Corpo d’Armata) e quella del Comandante Aldo Monteguti e del Dottor Gariboldi Genebaldo che hanno sostenuto l’assoluta probabilità di uno scoppio di materia esplosiva. Alla base del gesto, forse, la volontà di intimorire i Viganò e di compromettere la condotta forzata arrecando un danno all’impianto, non certo l’intenzionalità di provocare una siffatta catastrofe.


La strada dell’attentato, tuttavia, è stata accantonata fin da subito nonostante le ulteriori deposizioni rilasciate da un detenuto del carcere di Breno (BS). L’avallo dell’esplosione, dopotutto, avrebbe messo in luce le gravi carenze del regime fascista nel controllo del territorio e non avrebbe consentito alcun risarcimento statale. Alla gente, certo, ma alle imprese bergamasche e bresciane soprattutto, bramose di riscattarsi dopo lo scippo dei Viganò. Il processo, quindi, si ferma al secondo grado senza individuare un colpevole definitivo e i soldi cominciano man mano ad arrivare. Agli enti pubblici e alle industrie (che tra liquidità e sgravi fiscali ne escono spesso rafforzate rispetto al pre-disastro) e in piccolissima parte anche alla povera gente. 1.700 euro per la perdita di un bimbo di sei anni, 12.400 euro per la morte di una madre di famiglia. Cifre irrisorie che gridano vendetta, ma che in tempi di magra cuciono bocche, calmano teste e riempiono pance.


Le cicatrici della Diga del Gleno oggi sono ancora visibili e lacrimano sangue e ricordi a imperitura memoria.

La diga del Gleno oggi (wikipedia.it)

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La ricostruzione qui proposta riprende l’opera “La tragedia della Diga del Gleno – Indagine su un disastro dimenticato” di Benedetto Maria Bonomo, Mursia 2016. Approfondimenti ulteriori sono stati svolti consultando Ingegneria e dintorni, Il disastro del Gleno, Val di Scalve, Diga del Gleno, La tragedia di 95 anni fa.

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